Nota Politica

Ora è indispensabile che si vada fino in fondo nell’accertamento delle responsabilità e delle criticità organizzative su cui intervenire

La storia della Repubblica è stata ripetutamente segnata da episodi di maggiore o minore portata, ma tutti intrinsecamente gravi, di manovre illecite per condizionare la vita politica o trarne indebite utilità. In questa serie di “scandali” si inserisce a pieno titolo la vicenda di accessi abnormi alle banche dati e presunti dossieraggi che avvelena una stagione già surriscaldata dalla campagna elettorale permanente e da un contesto internazionale pieno di incognite. A rendere ancor più inquietante tale vicenda sono soprattutto due elementi: la dimensione quantitativa degli illeciti che stanno emergendo (definita “mostruosa” dal magistrato che indaga, il procuratore di Perugia Raffaele Cantone) e la circostanza che sia investita la struttura della Procura nazionale antimafia, un organismo a suo tempo fermamente voluto da Giovanni Falcone e che in questi anni si è rivelato cruciale nella lotta contro la criminalità organizzata e il terrorismo.
L’utilizzo delle banche dati è cresciuto in modo esponenziale in rapporto agli sviluppi tecnologici e sarebbe impensabile, oggi, tornare indietro. Bisogna peraltro essere consapevoli che, come per tutte le realtà umane, il rischio zero non esiste. Il tema da affrontare, realisticamente e doverosamente, è piuttosto quello di organizzare un’azione efficace per contenere al minimo le possibili deviazioni. La chiave è la riduzione del danno – ha spiegato con parole chiare l’ex-capo della polizia Franco Gabrielli, uno che di queste cose s’intende come pochi altri – e il danno si riduce con controlli, procedure e verifiche di quello che le persone fanno. Con il corollario di indagini rigorose a tutti i livelli (non solo quelli esecutivi) quando ci si trova davanti a comportamenti illegali. Ciò è tanto più vero quando sono in questione strutture di estrema delicatezza negli equilibri democratici come la Procura antimafia: non ci si può permettere un deficit di credibilità che finirebbe per minare la stessa autorevolezza dello Stato nel contrastare le organizzazioni criminali. Per questo è indispensabile che si vada fino in fondo nell’accertamento delle responsabilità e delle criticità organizzative su cui intervenire.
I due magistrati in primo piano, Cantone e il procuratore antimafia (in carica da meno di due anni) Giovanni Melillo, si sono mossi con apprezzabile sensibilità istituzionale, cercando subito un’interlocuzione con gli organismi parlamentari competenti. Mettere le carte in tavola, nelle sedi opportune, è sempre il migliore punto di partenza. E se ogni soggetto deve poter svolgere i propri compiti con una riconosciuta autonomia, è il principio della “leale collaborazione” che deve ispirare i rapporti tra gli organi dello Stato e i diversi livelli di governo.
Di fronte allo sconcerto che certe patologie del sistema provocano nell’opinione pubblica, è decisivo anche questa volta che le istituzioni della nostra democrazia dimostrino di avere gli anticorpi necessari per opporsi ai manovratori di turno e che la politica non faccia il gioco di coloro che – in Italia e non solo in Italia – contano di ricavare vantaggi dalla confusione e dal clima di scontro.

Stefano De Martis