Editoriale

A due settimane esatte dalla precedente commemorazione, quella di sabato 27 gennaio con il “Giorno della Memoria” per le vittime dell’Olocausto e del nazifascismo, sabato 10 febbraio celebriamo il “Giorno del Ricordo” per le vittime delle foibe e del comunismo titino. Come a ricordarci che l’uomo diventa “lupo” contro i suoi simili, sia che si rivesta o si colori in un modo sia che si rivesta o si colori in un altro, quando nel cuore cova odio e violenza, sopraffazione o vendetta – come le cronache di questi mesi e anni, poco lontano da noi, ci dimostrano fin troppo crudamente.

Le due “giornate” sono state istituite in Italia molto di recente rispetto all’epoca dei tragici fatti: la prima nel 2000 per gli eventi dei primi anni ’40 specialmente in territorio tedesco-polacco (1941-45); la seconda nel 2004 per quelli degli anni centrali della quinta decade del “secolo breve” in territorio italo-jugoslavo (1943-47).

Per quanto di proporzioni, modalità e finalità differenti, si tratta di una medesima nefanda vicenda che ha macchiato ancora di più – se fosse possibile – la storia europea e la stessa brutalità della guerra. Diverse, a dire il vero, anche nell’iter che ha caratterizzato la presa di coscienza da parte della pubblica opinione: se dell’Olocausto e dei suoi campi di lavoro e di morte per milioni di persone si è saputo e parlato ben presto, delle “foibe” – quelle caverne profonde del Carso che inghiottirono migliaia di vite non meno innocenti – si è parlato e saputo molto più tardi. O meglio, ne sapevano fin troppo coloro che avevano vissuto da vicino la tragedia e si portavano nel cuore l’immenso dramma che non veniva nemmeno riconosciuto pubblicamente.

L’istituzione di questa seconda giornata non solo è più tardiva cronologicamente ma rispecchia una consapevolezza ben più tardiva a livello nazionale, perché furbescamente o proditoriamente era stata sepolta nell’oblio. La cultura di sinistra dominante aveva ben enfatizzato, e con fondamento e ragioni da vendere, i misfatti della “destra fascista”, ma si guardava bene dal sollevare il lembo d’ignoranza che copriva le fosse ignote degli infoibati, né si premurava di considerare a fondo il dramma delle centinaia di migliaia di esuli istriani, fiumani e dalmati scacciati a forza, o fuggiti dalle loro terre per salvare la vita perdendo ogni cosa. Poi – meglio tardi che mai, è proprio il caso di dire – venne il tempo della conoscenza e perfino i libri di storia riempirono quelle pagine vuote.

Se quella dell’olocausto e del razzismo è chiamata solennemente “memoria”, questa delle “foibe” è chiamata più semplicemente “ricordo”, un termine più familiare, più vicino alla vita quotidiana, più dentro al cuore, perché parte speciale della storia italiana, che merita almeno altrettanta attenzione per “non dimenticare”.

Non si è più potuto negare, giustificare o minimizzare perché l’evidenza dei fatti e dei luoghi ha svelato l’orrore. Ora, insieme ai tanti memoriali che rievocano in molti luoghi la più grande tragedia del Novecento, si allestirà anche un Museo a Roma per questa tragedia “nostrana”, mentre luoghi, reliquie e documenti già parlano ormai da decenni poco ad est del nostro Veneto. Qui, in terra di confine – dove altri disperati della storia tentano la strada del riscatto, fuggendo da altri drammi e tragedie – ora si è imboccata la saggia via della riconciliazione fra popoli fratelli – diventati per qualche tempo nemici a causa di ideologie falsificanti e disumane – nella convinzione che solo comprensione e dialogo fanno il bene di tutti.

L’esperienza vissuta o conosciuta sta anche lì ad ammonire, in una prospettiva più ampia e forse più laboriosa da comprendere, che la strada della fraternità deve aprirsi a tutti. L’Europa che ora tiene uniti i nostri popoli un tempo fratricidi, ha pure il compito di diffondere fraternità oltre ogni confine.

Vincenzo Tosello