Nota politica

Lo “spirito costituente” implica innanzitutto un reciproco riconoscimento delle forze politiche come legittime interlocutrici

Per fare delle buone riforme istituzionali è necessaria un’attitudine di fondo che si è soliti giustamente chiamare “spirito costituente”, con un esplicito richiamo all’esperienza fondativa della nostra Repubblica, quella che ha portato all’elaborazione della Costituzione in vigore dal 1948. Il riferimento storico dovrebbe bastare a dissipare gli equivoci sulla natura di questo “spirito”, che non è espressione di buonismo o di superficiale unanimismo. Ogni tanto sarebbe salutare riprendere in mano gli atti dell’Assemblea costituente – ormai si trova tutto sul web – e verificare almeno dai testi l’intensità e la profondità del processo culturale e politico che c’è dietro la Carta. I costituenti non se le sono certo mandate a dire. A momenti di spessore intellettuale elevatissimo e in certi casi dagli accenti quasi lirici, nelle sedute delle commissioni e della plenaria si alternavano passaggi in cui il confronto si faceva duro, diretto. Non ci dimentichiamo che la dittatura e la guerra erano appena finite e che anche la situazione internazionale era pericolosamente sul filo. Eppure tra i membri dell’Assemblea, magari schierati su fronti radicalmente opposti come si manifestò di lì a poco nelle prime elezioni parlamentari, prevaleva la consapevolezza di lavorare a qualcosa di grande – di più grande delle rispettive posizioni che pure ciascuno difendeva con passione – e destinato a durare nel tempo.
È questa consapevolezza che oggi latita. La materia istituzionale è diventata un terreno di scontro e di scambio politico come gli altri. Non che ai protagonisti sfugga la rilevanza di questa materia, anzi, essa però non gode più di quella sorta di statuto speciale che le veniva riconosciuto in quanto ambito relativo alla “casa comune”. Se non fosse che per la lungimiranza dei costituenti la procedura di revisione della Carta è assai più lunga e complessa della procedura legislativa ordinaria, avremo le riforme costituzionali à la carte, passi il gioco di parole.
Lo “spirito costituente” implica innanzitutto un reciproco riconoscimento delle forze politiche come legittime interlocutrici. Anche nei momenti più dialettici, gli altri devono essere considerati avversari con cui competere, non nemici da annientare. Più facile a dirsi che a farsi, perché se è vero che nessuno ha il diritto di distribuire patenti, è anche vero che il dialogo è possibile se i soggetti sanno stare sulla scena pubblica con senso di responsabilità e rispetto. Rispetto anche della storia: affermare che ci sono delle parti della Costituzione da aggiornare o modificare – lo prevedevano gli stessi costituenti – e altre ancora da attuare, non significa cancellare decenni di vita repubblicana. Non siamo all’anno zero. L’Italia è stata ed è una democrazia autentica, pur con tutte le mancanze e le contraddizioni di ogni esperienza umana.
Lo “spirito costituente” esige inoltre il senso del limite. Non è un caso che la Costituzione parli di “limiti” già nel suo primo, fondamentale articolo. Le forze politiche e i rispettivi leader devono avere la chiara coscienza di essere una parte e non il tutto. Magari una parte maggioritaria, ma sempre una parte. Nessuno, anche in virtù di un ampio consenso elettorale, è titolato a rivendicare pieni poteri di fatto e men che meno di diritto. La lezione di Montesquieu, uno dei padri della democrazia moderna, è sempre valida: ogni potere – politico, economico o giuridico – che non conosca limiti strutturali rischia di diventare tiranno. Bisogna tenerlo ben presente soprattutto quando sono in cantiere, come oggi, modifiche molto rilevanti della Costituzione.

Stefano De Martis